LA ROCCA DI BERNACCO
La rocca di Bernacco (da: “Leggende di Vallio” – di L. Monchieri, Brescia 1969)
Della favolosa e superba rocca di Bernacco, ora non restano che ruderi calcinati, in cima ai 777 metri dello squallido monte che ne porta il nome.
Nel Medioevo, al vertice del suo splendore, tiranneggiava sulla valle il ricco feudatario Ertulliano. Investito del feudo dai signori della Valle Sabbia e di Gavardo, Ertulliano si era costruita sulla sommità dell’altura di Bernacco una lussuosa dimora. Per l’inaccessibilità agli abitanti e per il mistero che la circondava, la rocca era denominata “il nido dell’avvoltoio”. “Avvoltoio” chiamava il popolo Ertulliano per le sue rapide apparizioni che effettuava nell’abitato.
Spalleggiato dai suoi giannizzeri, il feudatario passava dai soprusi alle ribalderie. Dalle ruberie alle vessazioni con la facilità propria degli impuniti. A somiglianza dei neri uccellacci che di quando in quando si vedono planare ad ampie ruote sulla valle, Ertulliano calava sulle case e vi lasciava dolore e morte.
Il popolo, sottoposto alla servitù della gleba, al feudatario doveva regalie sempre più abbondanti e decime onerose, soprattutto in tempo di siccità e carestia; a lui doveva le bestie più belle, i vitelli e gli agnelli più grassi, i frutti primaticci. Ertulliano se la spassava da padrone assoluto. Il feudatario era terribile con coloro che gli mancavano di rispetto e con chi non gli versava il richiesto.
Quando mandava i suoi ribaldi a correre le contrade di Vigle, di Bernacco e di Oriolo, per lunghe ore si udivano a distanza le grida disperate dei disgraziati sottoposti alle frustate e alle torture.
Gli abitanti levavano con sgomento la testa alla turrita rocca che dominava minacciosa e si rintanavano frettolosamente nelle misere case non appena l’urlo dei mastini annunciava che gli scudieri del feudatario stavano per uscire dal ponte levatoio.
Ciò che gli scudieri non chiedevano per il loro signore, chiedevano per sé; ed erano le richieste più infami: fanciulle rapite e famiglie disperse per il capriccio insano dei tiranni. E chi tentava di rifiutarsi veniva scaraventato nel baratro degli avvoltoi che apriva le tenebrose fauci di pietra nelle vicinanze della rocca.
Questo baratro terrorizzava il popolo: non passava settimana che nella notte non si udisse l’urlo angoscioso dei condannati all’abisso.
[…] Spesso salivano alla rocca forestieri o invitati di Ertulliano ed i poveri valligiani erano obbligati a portare sulle spalle le pesanti provviste per le cantine del tiranno. Qualcuno di quei forestieri, tra i più ricchi, non rivide più la via del ritorno. Il crudele Ertulliano, consumato dalla cupidigia ed arso da un desiderio insaziabile, condannava a morte gli ospiti per derubarli dei loro lauti bottini. Egli era circondato dalle peggiori figure che si potessero immaginare: a lui accorrevano i perseguitati dalla giustizia, le canaglie e gli sfuggiti alle galere bresciano e viciniori, per accrescere la sua soldatesca.
Non aveva chi gli volesse bene. Non aveva parenti, né amici, né sudditi fedeli.
La sua casa non conosceva sorrisi di donne gentili, grida gioiose di bimbi, canti sereni di gente operosa, ma solo strida, alterchi, e gozzoviglie. Fino a tarda notte si udivano le grida scomposte degli avvinazzati e i canti sguaiati dei gavazzatori, degno ornamento della rocca doviziosa.
Di quando in quando alcuni trovadori salivano alla rocca; anche dei pellegrini, attratti più dal miraggio della pace e del riposo che dalle bellezze del Bernacco e dal verde della Valle Sabbia. Ma quei pochi forestieri che ricalcavano la via del ritorno poterono a malapena sorridere soddisfatti d’essere sfuggiti agli avvoltoi o alle alabarde di Ertulliano. Né più vi facevano ritorno. Così la casa del feroce padrone conobbe il deserto e la desolazione. Ertulliano allora usciva dalla rocca e, furente, correva le contrade per raccogliere un omaggio forzato, un ossequio ottenuto con le minacce dagli impauriti e sottomessi valligiani.
[…] La gente non poteva sopportare più a lungo. Qualcuno disperato, di notte, aveva tentato la fuga, eludendo la sorveglianza delle scolte del tiranno. Chi rimaneva raccomandava l’anima a Dio ed elevava preghiere al Cielo perché liberasse dall’incubo del tiranno la valle.
Alla fine, Dio esaudì le preghiere degli umili, pago nella sua misericordia, delle inaudite sofferenze degli infelici che avevano colmato l’abisso di male commesso da Ertulliano.
Uno stuolo di formiche rosse e grosse cominciò a minare le fondamenta della rocca. Ertulliano e i suoi dapprima non fecero caso allo strano fenomeno. L’invasione delle formiche andava dilagando. Formiche nelle sale, nelle cantine, nelle dispense, sui mobili, dovunque.
Per Ertulliano non v’era più pace; non poteva né mangiare, né dormire, né dedicarsi ad occupazioni di qualunque sorta. Le formiche erano diventate un’ossessione, una disperazione. Ma il lavoro più sordo e definitivo si compiva sotto sotto, nelle fondamenta stesse della rocca.
Il feudatario usò ogni mezzo in suo potere: fumo, fuoco, acqua per distruggere gli insetti e liberarsi dalla loro piaga. Tutto fu inutile.
Una notte parve, infine, che il flagello subisse una sosta. Ertulliano, credendo che le formiche si fossero allontanate, bandì una grande festa. Preannunciati dalle scolte, arrivarono i signori di Mezzane e di Serrane, suoi pari. La festa fu un’orgia: corsero vivande e vini a crepapancia per tutti. Signori e soldati, tutti riuniti nella rocca urlavano a squarciagola. Venne la notte e la bolgia continuava.
D’un tratto i mastini urlarono più cupi; s’addensava un temporale quale mai s’era visto sulla valle: lampi improvvisi ed accecanti balenarono dall’un capo all’altro; tuoni tremendi fecero rimbombare ogni roccia e rintronarono ripercuotendosi sui fianchi delle montagne di valle in valle; nuvoloni neri come pece si addensarono sulla rocca e sulla valle. La canea era al culmine. Ertulliano e i suoi, ubriachi ed abbruttiti, non erano in grado di capire il pericolo che incombeva sul loro capo.
Il vento prese a soffiare con forza inusitata e le sue raffiche si alternavano a scrosci poderosi di pioggia. In breve, la rocca fu avvolta dall’uragano e, di tanto in tanto, i lampi guizzanti lasciavano scorgere le sue torri cupe; le finestre illuminate parevano ghigni infernali.
I poveri servi della gleba, svegliati da tanto furore, chiedevano alla natura che facesse ciò che i loro cuori da anni chiedevano. E le preghiere salirono più fervide che mai alla maestà onnipotente del santo e terribile Dio degli eserciti.
Il vento furoreggiò selvaggio, la pioggia infittì, crebbe d’intensità e sferzò ogni pietra, ogni albero, ogni cosa; dense nubi strinsero la rocca tra le loro spire. D’improvviso, ognuno sentì un boato immane; un sussulto di terremoto squassò la valle che tremò in ogni suo angolo, anche il più riposto. Seguì un brontolio cupo. Il vento portò con l’incessante picchiettio della pioggia, il latrare serrato dei mastini.
Poi più nulla.
Al mattino, un sole sfolgorante rivelò il miracolo. Grida di gioia si ripercossero di casa in casa, di campo in campo, di riva in riva, di colle in colle. La rocca era sparita. Un mozzicone grigiastro sulla sommità indicava che Iddio, per mezzo delle formiche, aveva punito il tiranno ed esaudito le preghiere dei miseri.
Da allora la valle respirò sollevata.